Riflettiamo - Dott. Giuliano Franzan

Dott. Giuliano Franzan
Teologo - Psicologo - Sessuologo - CTP
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Riflettiamo

Perché fare famiglia...

1. Il senso della soluzione cristiana
Con la visione triangolare, così il modello cristiano affronta la tensione fra comunione e differenziazione.
- L'inevitabile contraddittorietà del vivere insieme si risolve ricorrendo ad un terzo elemento che è sopra le parti e regola le parti. Dunque, il successo delle relazioni non si verifica con la moltiplicazione delle relazioni ma deriva da un altro piano. La relazione non migliora cambiando il partner, né variando le regole del gioco, né stabilendo un compromesso. Bisogna chiedersi a che cosa tende l'individuo (e la famiglia) e alla luce del fine si comprendono quali devono essere le leggi di una vita di relazione ben ordinata.
- Anche per la famiglia vale il primato della persona sul gruppo. Il noi non può soffocare l'io ma è matrice di un io più potenziato.
- Il primato dell'io non è individualismo (prima io e dopo gli altri, se c'è tempo) né strumentalizzazione del noi (voi al mio servizio). Il segno di un io realizzato non è in lui ma nella sua capacità di arricchire il noi (un giovane che si realizza «scaricando» i suoi vecchi è un tipo sospetto).
-Il tu relativizzato. La vita di coppia e di famiglia non è il valore ultimo, ma penultimo. L'ultimo è costituito dai valori per i quali la coppia e la famiglia sono trampolino di lancio. Il programma, dunque, non è solo direzione di uno verso l'altro, ma puntare verso le mete più alte della vita sorretti dal sostegno altrui. Il partner non può essere l'assoluto per l'altro. Nessuno può donare all'amato il cielo in terra ma, più modestamente, aiutarlo perché l'amato dalla terra passi al cielo. In termini cristiani: solo Dio è il tutto per l'uomo. L'altro non è Dio e dunque non va assolutizzato. La fede in Dio ridimensiona l’amore umano non squalificandolo ma togliendogli il primato assoluto riservato all'amore per Dio. È questione di proporzione e di primato. Con questo non si dice: devi amare meno gli altri. Ma: devi amare di più Dio. Il problema non è amare troppo gli altri, ma amare poco Dio. È il poco amore per Dio, non il molto amore per gli altri che costituisce il disordine[1].
«La madre possessiva che soffoca con le sue cure il figlio, lo ama troppo. Troppo, perché inibisce la crescita autonoma del figlio, ma in ultima analisi perché ne ha fatto un idolo. Lo psicologo le dirà che nel figlio sta proiettando le proprie aspettative inconsce frustrate o che cerca compensazione per un rapporto di coppia deludente. Lo psicologo che è anche credente le dirà le stesse cose ma aggiunge che ha fatto del figlio un dio da adorare. Amore compensatorio o amore idolatra: due versioni dello stesso concetto. Si tratta di poco amore. Quella madre, in realtà, ama poco perché la sua felicità coincide troppo con il benessere del figlio. Il 4 a scuola preso dal figlio condiziona tutto il clima familiare e nella bocciatura di lui è lei che si sente bocciata (come?! dopo che "abbiamo" studiato così tanto). Ama poco anche secondo il modello della gratificazione e della socializzazione: se continua così ne fa un figlio affamato e insaziabile e un essere disadattato. Se questa madre vuole uscire dall'impasse si deve chiedere che cosa sta proiettando sul figlio, ma anche quale è il fine che ella gli augura. Dovrà riordinare la sua gerarchia di valori e a questo punto potrà relativizzare la relazione con suo figlio e amarlo di più».
- Solitudine inevitabile. Ci sono dei pesi che ognuno deve riservare per se e delle domande a cui nessun altro può rispondere. Anche se insieme si rimane differenziati, il che non è il presupposto della incomunicabilità, ma permette alla relazione di essere intima e complementare senza cadere nella fusione. Preservare l'individualità è una esigenza della crescita che, anche se compiuta insieme, rimane un fenomeno socialmente indipendente. Il marito e la moglie che si vogliono bene ci tengono a essere uniti, ma sanno anche andare avanti da soli, coraggiosi senza incoraggiamento, stimolatori senza stimoli. Crescere vuol staccarsi per diventare sempre più autonomi e quindi sempre più soli[2]. La vita di relazione non esonera da questo destino. Altrimenti, il matrimonio diventa una fuga dalle responsabilità personali: uno si serve dell'altro per buttargli addosso il peso della vita che tuttavia sappiamo non scaricabile neanche in parte. Ecco allora l'impoverimento dell'amore e del suo godimento nelle mille forme possibili: il marito che cerca l'iniezione di coraggio che lo ricarichi, la moglie affamata di una carezza altrimenti va in crisi, lui che si mette in atteggiamento servile (e non di servizio), lei che scarica la sua rabbia con pose di dominazione (e non di guida), messaggi del tipo «vivi anche tu ciò che io vivo così che io sia più sicuro della mia scelta», «ripetimi quello che io dico altrimenti dubiterò di avere una testa». Mille tattiche al fine di servirsi dell'altro come appoggio per andare avanti[3]. Anche se sposati, il partner non può portare per noi la responsabilità della nostra crescita che non può che rimanere tutta nostra.
- Atteggiamento di oblatività. Ma allora perché ci si sposa? A cosa ci serve l'altra persona? A niente. Quando non ho più bisogno dell'altro, allora posso incominciare ad amarlo veramente. Questo principio psicologico è ben espresso nella preghiera di s. Francesco: «Fa' o Signore, che io possa cercare non tanto di essere consolato quanto di consolare; di essere compreso, quanto di comprendere; di essere amato quanto di amare; poiché è nel dare che noi riceviamo». Questo senso di libertà dall'altro non è individualismo ma è relazione reciproca di due persone che pur mantengono la loro indipendenza. È donare senza che sia richiesto o sia segno di potenza personale. È il frutto dell'accettazione della propria responsabilità di vivere. Le persone terrorizzate dalla solitudine o affamate di fondersi nell'altro non possono costruire grandi matrimoni[4]. L'amore genuino per l'altro non solo rispetta l'individualità dell'altro ma cerca attivamente di potenziarla.
- Dare il primato alla persona significa mantenere l'amore reciproco su base di libertà. Proprio perché la persona si costruisce attraverso la relazione, bisogna che la persona mantenga tutta la sua dignità. La logica del bisogno è vincolante e prima o poi porta al ricatto. La logica della libertà è scelta reciproca. L'amore maturo è sempre un po’ selettivo, non fonde ne confonde. La partecipazione alla vita relazionale si basa sul senso di responsabilità personale. L'intimità non è intimismo.

2. I contenuti della proposta cristiana: il rapporto fra comunione e differenziazione
Riprendiamo il problema: ci deve essere equilibrio fra unione e differenziazione. La vita di famiglia favorisce i viaggi solitari (luogo di trascendenza) che però è più difficile compiere senza la protezione di una famiglia (potenziatrice di identità). Questo equilibrio è il problema base di ogni relazione. Come essere persone autonome-individuali senza diventare individualisti? Come essere in comunione senza cadere nel comunitarismo? Come appartenersi senza rinunciare alla propria autonomia? Dialogo di coppia è fare tutto insieme, ragionare con la stessa testa, oppure riconoscere che abbiamo due teste diverse? Riconoscersi diversi significa incomunicabilità di carattere? I figli, fino a che punto sono nostri e fino a che punto non ci appartengono? Sono nostri, ci assomigliano, e allora devono essere la nostra brutta copia? Non ci appartengono, e allora hanno il diritto di affermarsi contro di noi o senza di noi?
Abbiamo già visto che la soluzione cristiana risolve il problema chiarendo le aspettative: cosa si può pretendere e non pretendere dalla relazione. Ma offre anche tre contenuti per raggiungere l'equilibrio fra comunione e differenziazione. (Li riferiamo alla vita di coppia ma ognuno di noi li può applicare anche al rapporto con i figli).
a) La differenziazione (o individualità) dispone alla comunione.
b) La comunione favorisce la differenziazione.
c) La differenziazione arricchisce la comunione.
a) La differenziazione (o individualità) dispone alla comunione. Questa tesi sarà spiegata quando parleremo dell'amore maturo. Per ora basta dire questo: il problema del senso della vita è strettamente personale. Chi è capace distare da solo può vivere in comunione. Meno la persona è sicura di sé e più sarà ostacolata nella comunione: tenderà a difendersi anzi che a donarsi; ha bisogno dell'altro per la propria sicurezza e gratificazione e quindi non può amarlo per ciò che è, ma per ciò che è capace di dare. Più la persona ha una propria identità e più è capace di darsi in modo gratuito. Chi ha un io consistente è più disposto a lasciarsi andare, a perdersi, anche quando non è immediatamente accessibile la ricompensa. Questa libertà produce una fondamentale fiducia verso l'altro come conseguenza della fiducia in sé; la matura accettazione di sé permette di mettersi in relazione con un'ansia minima e quindi anche con una ostilità minima, evitando i due estremi della dipendenza e indipendenza. Nel primo caso c'è l'incapacità di prendere decisioni senza l'aiuto degli altri e il bisogno di accettare come infallibili le opinioni altrui. Nell'estremo della indipendenza c'è l'incapacità di adattarsi senza sentirsi dominato e quindi incapacità di prendere decisioni con l'aiuto degli altri. Fra i due estremi si situa la flessibile autodeterminazione: prendere le proprie decisioni con l'aiuto degli altri rispettando la libertà altrui e mantenendosi le proprie responsabilità[5].
b) La comunione favorisce la differenziazione. Il mito di tante canzoni d'amore è infranto. La comunione non toglie il fatto di essere e rimanere separati. Il vero amante percepisce l'amato come qualcuno che ha una identità separata e, di più, rispetta e incoraggia la di lui individualità. Altrimenti si realizzano matrimoni simbiotici. Occorre mantenere il senso della propria individualità e separazione dall'altro nonostante ci sia comunione con lui. La comunione non sempre rispetta la regola «l'unione fa la forza». C'è comunione, ma si sa andare avanti con la forza interiore che si rigenera per carica interna e non per iniezioni dall'altro.
c) La differenziazione arricchisce la comunione. La ricupera portandola a un livello più alto. La cura per la propria individualità è in funzione della comunione. Gli obiettivi perseguiti in solitudine elevano il matrimonio a una nuova dimensione. La crescita individuale e comune sono interdipendenti, ma la seconda deriva dalla prima. M. Scott esprime molto bene questo principio con un'analogia tra la famiglia e il campo-base per scalare una montagna[6].
Chi vuole scalare una montagna deve avere un buon campo-base, un posto dove ci sia protezione, ristoro, affetto, riposo prima di avventurarsi di nuovo verso una cima ulteriore. Gli scalatori sanno di dover spendere molto tempo per costruirsi il campo-base, anzi si impiega più tempo per il campo-base che per la scalata. La sopravvivenza dello scalatore e il successo della scalata dipenderanno in gran parte dal campo-base. La famiglia è questo campo-base dove ognuno si sente inserito in un progetto comune, con un proprio contributo e significato per se e per gli altri uniti a lui.
Però il campo-base non è fine a se stesso. Vuole favorire la scalata che sarà sempre un viaggio solitario. Anche se in cordata, ogni persona dovrà confidare sulle proprie forze e sul proprio coraggio se vuole raggiungere la cima. Così il matrimonio: richiede comunione, ma allo scopo principale di provvedere a viaggi individuali e personali verso le vette solitarie della propria crescita.
La scalata solitaria non è però individualista. Ricupera la comunione a un livello più alto. Quando lo scalatore raggiunge una cima più alta non dimentica il campo-base lasciato a valle, ma lo chiama a raggiungere la cima per equipaggiarsi - con lui - verso una cima ulteriore. Il campo-base ha favorito la scalata, ma la scalata arricchisce il campo-base. I viaggi individuali devono arrecare un beneficio a tutto il campo-base. I sacrifici fatti in favore della crescita altrui portano a una uguale o maggiore crescita di sé. La vetta che lo scalatore raggiunge da solo serve per elevare il matrimonio a nuove altezze.
Occorre un giusto equilibrio tra differenziazione e comunione. Il viaggio verso la vetta è sempre solitario, ma non si può concepire senza la protezione data da un matrimonio riuscito. Il marito non può spendere tutte le energie a scalare le proprie montagne e non fare niente per rinforzare il matrimonio, illudendosi di trovarlo sempre in ordine e perfetto quando decide di ritornarvi per riposarsi e distendersi senza assumersi la responsabilità di mantenerlo. Prima o poi ritroverà un campo-base impoverito, una moglie frustrata, innamorata di un altro o almeno delusa. Così, la moglie non può pensare di aver raggiunto lo scopo della vita solo perché si è sposata. In questo caso, per lei il campo-base diventa la vetta. Un rifugio anziché un trampolino di lancio. Se qualcuno vicino a lei spinge per andare oltre, lei si sentirà abbandonata e scatenerà una reazione di gelosia. Il mancato equilibrio delle due dimensioni sfocia in un conflitto.
 
[1] C.S. Lewis, The four loves, Harcourt, Brace, Jovanovich, New York 1960, 170 (tr. it. I quattro amori, Jaca Book, Milano 1980).
[2] L'aspetto di solitudine è ancor più evidente se applicato al rapporto genitori figli. Senza questo presupposto il figlio rimane un eterno adolescente che, protetto alle spalle, non si assume in proprio la responsabilità della vita.
[3] R. Carelli, I paradossi per ottenere l'amore dell'altro, in Orientamenti pedagogici 36(1989), 340-350.
[4] F. Antonelli, Psicologia della coppia e della famiglia, Mediterranee, Roma 1978, 9-21.
[5] L. Rulla, Psicologia del profondo e vocazione: le persone. Marietti, Torino 1975, 137-139.
[6] M. Scott Peck, The road less traveled, Simon-Schuster, New York 1978, 81-184.
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