Riflettiamo
Fede come avventura...
Seconda parte: Il suono del flautoRiflessione: «Coraggio, sono io» (Mc 6,45-51)
È finito il grande gesto di Gesù, col quale ha sfamato migliaia di persone, con i pochi pani che qualcuno aveva con sé: ora bisogna tornare alla solita vita, alle cose solite, piccole, «normali», alla quotidianità, quando tutto si oscura: e sembra banale, quando sembra di essere soli.
Gesù «ordina» ai discepoli di andarsene: la fede è un andare, un continuare, uno scoprire senza mai ripetersi, senza legarsi a quanto già si è visto e fatto, è il coraggio di addentrarsi nella realtà più semplice per arricchirla della grandezza che viene da Dio anche se non sempre è qualcosa di vistoso.
È Gesù stesso che vuole educare i suoi discepoli a credere in lui anche quando l'entusiasmo delle folle si spegne, perché la fede è accettare ciò che non si vede, fidarsi e affidarsi a Dio senza pretendere di farne una esperienza emotiva.
C'è stato il gesto miracoloso e profetico, e questo basta per accendere l'entusiasmo, per decidere a fidarsi, per cogliere un segno chiaro indicatore della presenza amorosa di Dio: poi la fede continua e si radica nella volontà, nel voler credere affidandosi a Dio.
Gesù intanto si ritira in preghiera: è il gesto caratteristico di Gesù, il suo entrare nella intimità col Padre, per indicare la verità della sua persona e per mettere sulla strada giusta coloro che lo vogliono seguire.
La preghiera di Gesù è sempre il richiamo e la misura della sua realtà di Figlio di Dio, ed è anche il suo insegnamento per tutti gli esseri umani, anch'essi figli di Dio chiamati a realizzare questo loro destino infinitamente superiore alle loro stesse aspettative.
E sarà sempre la preghiera a mettere il cristiano nella posizione più giusta, nella dipendenza amorosa verso il Padre, nella attenzione filiale del discepolo che vuole conoscere in modo certo la propria identità.
Intanto i discepoli sono impegnati nella fatica di una traversata non facile in questo momento: eppure sono assai pratici di quel lago e del loro mestiere, conoscono le varie mutazioni di quella conca aperta ai venti burrascosi, ma sempre bisogna fare fatica se si vuole vincere le avversità.
Non basta la lunga esperienza della vita di fede, di un rapporto con Dio, non basta l'abitudine alle «cose di Dio»: sempre emerge, prima o poi, il momento della difficoltà, della fatica, e quindi emerge la tentazione di aspettare, di rassegnarsi, o peggio di scandalizzarsi di Dio che non mantiene le promesse.
Il momento della crisi, della oscurità, del non capire e del non essere capiti, il momento della solitudine e del sentirsi sopraffatti dalla violenza delle cose e delle persone, viene sempre, perché il rapporto con Dio è sempre qualcosa che supera e fa entrare nelle sue dimensioni così diverse dalle nostre.
Il «vento contrario» spira assai di frequente: e non sai da dove viene e dove va, non è ipotizzabile, perché sorge improvviso, e scuote le sicurezze, le abitudini, rendendo tutto difficile così da sembrare assurdo o inutile.
C'è soltanto da non cedere e continuare, da rimanere là dove si è, dove l'impegno e la propria identità conducono, là dove è garantito l'aiuto di Dio che non abbandona nessuno e che anzi vuole essere la forza di chi è debole: l'errore peggiore sarebbe quello di abbandonare il proprio posto, quella tensione di fede e di coerenza che al momento può sembrare inutile o fuori posto.
Di fatto Gesù va incontro ai discepoli proprio perché si trovavano in situazioni critiche, perché stavano lottando contro la forza delle acque, stavano compiendo il loro dovere per recarsi all'altra sponda dove avevano l'appuntamento con lui.
Per questo avviene l'incontro, perché hanno obbedito e non si sono lasciati sopraffare dalle avversità.
C'è sempre l'aiuto di Dio, ma c'è quando si ha il coraggio di essere fedeli, spendendo le proprie energie, facendo del proprio meglio, anche se all'occhio umano può sembrare una fatica inutile: Dio non abbandona mai, purché ciascuno faccia tutto il suo possibile e usi i doni che già possiede, e lasci a lui l'ultima, parola, il giudizio definitivo sul da farsi.
È questa la fede: non un sentimento né una abitudine, né il richiudersi in gesti e parole che magicamente possano compiere quei progetti che noi pensiamo di Dio e che in pratica sono soltanto nostri, ma il coraggio di prendere sul serio la parola di Dio e realizzarla nel modo migliore.
Gesù viene come vuole lui: «è un fantasma!». Sembra qualcosa di strano, non segue le regole comuni, non si manifesta come noi vorremmo, anzi ci spaventa.
Gesù non è comodo, non è il servitore che avalla le nostre piccole vedute, i nostri schemi meschini: fa vedere invece quello che lui è, di che cosa è capace, come vuole avvicinarsi a noi per farci fare nuove esperienze.
Alla nostra paura, al nostro smarrimento nel vedere ciò che non ci aspettiamo, lui stesso risponde incoraggiando: «Sono io!».
Gesù è come lui è, e ci invita ogni volta a non rimanere nelle piccole definizioni frutto della nostra intelligenza o della nostra abitudine: è un dono che ci vuole fare per costruire dentro di noi quell'abito mentale che è proprio della fede e che si apre continuamente alla novità di Dio senza mai esaurirla. Se la nostra fede è il Cristo, siamo sempre in ricerca, sempre nello stupore della novità che Gesù ci presenta, sempre nella umiltà di sapere di essere infinitamente lontani dalla verità, e quindi sempre nella fatica di remare contro corrente, di lottare contro i venti burrascosi della nostra stessa mentalità e della mentalità comune nella quale e della quale viviamo.
È questa la condizione perché, aderendo a Gesù con una fede coraggiosa e umile, si approdi alla riva, tutto diventi meno difficile, cessi il vento e ritorni la calma, la sicurezza interiore, fondata finalmente non su noi stessi, e sulle nostre capacità spirituali, ma soltanto su di lui, sulla sua presenza, sul suo dono.
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