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Riflettiamo - Dott. Giuliano Franzan

Dott. Giuliano Franzan
Teologo - Psicologo - Sessuologo - CTP
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Riflettiamo

Debolezza psichica del giovane d'oggi...

Ci soffermeremo, nelle prossime riflessione, sulla debolezza del giovane d'oggi...

Il concetto di debolezza psichica è già implicito nella struttura di un giovane, se per giovane si intende adolescente (e a maggior ragione bambino) o giovanissimo adulto, che ormai va dalla fascia dei fatidici 18 anni della maggiore età alla fascia dei 30 anni e più anni (quei ragazzi insomma che il Ministro dell’Economia ha chiamato bamboccioni).
Debolezza psichica non significa scarsità di capacità fisiche o intellettuali, ma solo incompletezza di struttura, in quanto l’adolescente, o il giovanissimo adulto, non hanno ancora raggiunto la fase di maturazione completa che nella vita di un uomo permette l’autonomia rispetto alla famiglia di origine.
Voglio quindi organizzare alcune idee attorno a questo nucleo, dando una panoramica dei giovani come appaiono oggi, in base alle ricerche attuate sul campo, e in base, soprattutto, all'esperienza clinica di consultorio sulle problematiche giovanili.

Che cosa vogliono e che cosa sentono i giovani oggi
Non è facile descrivere che cosa vogliono i giovani di oggi. Dalle lunghe consulenze e dalla pratica quotidiana con le richieste giovanili[1] emerge nei giovani una profonda contraddizione: da una parte la gioventù anche oggi ha una spinta profonda a superare lo status di persona incompleta che non conta nella società e nella famiglia, in modo da arrivare quanto prima a mete di autonomia e di indipendenza; dall'altra però emerge subito, altrettanto forte una spinta, in direzione contraria, a rimanere cioè  in parcheggio in seno alla famiglia, per godersi un poco ancora “il nido caldo” e per inoltrarsi - accanto a coetanei - nel cammino della vita senza troppa fretta.
Tutte le ricerche sui giovani (almeno in Italia) evidenziano queste contraddizioni che i media strumentalizzano ora in una polarità e ora in un’altra.
Certo i giovani vogliono arrivare allo stato adulto perché la spinta al divenire è la più vera, che corrisponde anche a quella che socialmente è riconosciuta, e ufficialmente sostenuta nelle istituzioni scolastiche e civili.
Questa necessità di diventare grandi e rimanere sé stessi, a mio modo di vedere, dovrebbe essere oggetto di studio e potenziata nei suoi risvolti pedagogici (superamento corretto delle tappe evolutive), sociologici (il distacco dalla famiglia di origine e l’inserimento nel contesto sociale), e politici (le modalità per trovare lavoro, abitazioni e possibilità di autonomia).
Purtroppo squilibri familiari e sociali interferiscono tremendamente e la politica giovanile non riesce ancora a decollare in Italia.

La spinta alla crescita individuale non si dovrebbe frenare
Come ogni spinta positiva, la spinta alla crescita e alla autorealizzazione non può essere annullata senza provocare un disagio intenso e notevoli repressioni nell'individuo che si sente “frenato” o, come dirò poi, potrebbe venire spostata all'esterno, e tradotta in atteggiamenti trasgressivi. Ognuno ha il diritto alla crescita completa in tempi normali[2]. L’arresto di queste dinamiche positive è uno dei fattori principali della fragilità che connota lo stato giovanile attuale: poco impegno, passività, reazioni trasgressive, incertezza e ansietà di fronte al futuro ecc.
Ogni persona “sente”, nel proprio interno, come dovrebbe essere e mette questo suo sentire in contrapposizione continua con quello che invece è costretta ad essere (o a rimanere); così  per vincere la tensione che deriva, che pervade la sfera del divenire come un’onda anomala, chi si sente costretto ad essere come non vorrebbe (o a rimanere come lo vorrebbero gli altri), cerca di rimanere in equilibrio sopra situazioni che non lo possono più reggere (posizioni adolescenziali o addirittura infantili, posizioni di reazione difensiva ecc.).
Chi si trova in queste posizioni si sente fragile e bisognoso, arrabbiato e infelice e cerca di reagire facendo il gradasso, il bullo, lo sfaticato, o, ancora peggio, il “bravo bambino” che non ha problemi.[3] È la problematica del disadattamento che differenzia e specializza i comportamenti difensivi tipici del maschile e del femminile. I maschi assumono spesso atteggiamenti da bullo o da imbranato, le ragazze atteggiamenti da schizzinose, sofferenti, fatali, difficili e spesso si ammalano (di anoressia-bulimia, di amenorrea, di eczemi atopici ecc.) nel tentativo di non diventare donne.
Il disagio che proviene da questa fragilità si potrebbe meglio definire mancanza di identificazione: l’adolescente e il giovane cronologicamente adulto hanno bisogno di figure “adulte” ben realizzate che servano da modelli e diano stimolazioni che aprano la strada per la programmazione del futuro.
Più che a costruire il futuro, i giovani sembrano essersi specializzati nel navigare sul mare agitato del presente e del futuro prossimo. Del domani, senza arrivare al domani l’altro. L’arte della flessibilità appare, di conseguenza, l’aspetto che più di tutti individua e specifica i giovani, definendoli come ‘unità generazionale’…[4].
Forse con il termine di unità generazionale l’autore intende una unità che contrasta ma non si coinvolge con il mondo attuale degli adulti. Sembra piuttosto un profilo [giovanile] dai contorni sfuggenti. Difficile a tradursi in una foto di gruppo, in un ritratto collettivo… Navigano a vista nella penombra; perché scelgono modi di partecipazione frammentati, centrati su obiettivi puntuali e su risultati concreti (immediati); perché si sono abituati alla flessibilità nel lavoro; perché anche per esprimere alterità … invece dell’opposizione aperta, essi scelgono di sottrarsi alla vista altrui. Oppure (come per i centri sociali) la realizzazione di ‘zone franche’.[5]
Così il giovane fragile diventa, secondo la bella definizione del Diamanti “specialista del presente”, flessibile nello strumentalizzare tutto quello che gli può essere gradito. Sanno di non “contare” nella società, ma non si rassegnano ad essere gli ultimi nella scala di coloro che ‘contano’ perché sono adulti. Allora tardano a diventare adulti sprecando non poche energie.
Se si analizzano i meccanismi di questo ritardo si scopre che le generazioni più giovani impiegano più tempo di prima nel compiere una serie di transizioni o passaggi essenziali: si è allungato il periodo di studio; il periodo necessario per trovare un ruolo non effimero nel mondo del lavoro; il tempo per maturare la decisione e le condizioni per uscire di famiglia; il tempo di decisione per la costituzione di una unione stabile; l’intervallo tra la costituzione di una unione e la decisione di avere un figlio. Poiché spesso queste tappe sono in successione, l’intero arco di tempo per compiere il ciclo, o le sue sezioni significative, viene fortemente allungato. Ho chiamato questo complesso fenomeno ‘sindrome del ritardo’ nella convinzione che il ritardo nella transizione alla vita non sia solo un adattamento fisiologico ai mutamenti strutturali della società, ma un fenomeno con caratteristiche patologiche che si autoalimenta…”[6]
Questo fenomeno di ritardo forse patologico già rilevato - come sottolinea lo stesso prof. Livi Bacci Massimo dell’università di Firenze - negli anni 90 del secolo appena trascorso, si rivelò in questi ultimi anni in crescita statistica e cronicizzato nella sua struttura. Le ricerche più recenti hanno definito i giovani come un “universo parallelo” rispetto a quello degli adulti, ma che tende a strumentalizzare gli adulti dall’interno delle strutture nelle quali vivono (famiglia e scuola). Vivono in famiglia, frequentano le scuole ma … come se fossero estranei, con valori e prospettive diversi.[7]

Il freno del “parcheggio”
Non è esagerato dire quindi che una fascia di popolazione giovane che non sarebbe più cronologicamente e fisiologicamente adolescente vive come gli adolescenti in parcheggio, conquistando però rispetto agli adulti interessati a loro (genitori e anche professori) autonomie che sarebbero specifiche degli adulti. Vivono in casa e vanno a scuola ma dispongono di decisioni contrarie alla tolleranza familiare, esigono contributi economici paragonabili a ministipendi che utilizzano solo per le loro necessità, vanno a scuola o all'università ma senza entusiasmo e senza impegno nei confronti del futuro. Non hanno futuro ma solo presente da gestire nel modo più gradevole possibile.  Rimanere nel “parcheggio” troppo a lungo fa loro male perché rimangono frenati sulla strada della vita, che forse non imboccano neppure più; rimangono impediti di conseguenza nella progettazione di sé stessi e “fissati” per così dire nel presente. Il “parcheggio” fa prendere abitudini deleterie di consumismo nel presente, alternative a quelle che sono considerate le buone abitudini della vita familiare, del lavoro, dell’impegno sociale e politico.
 
[1] Ricordo che l'ispiratore per questa riflessione è un mio grande amico (Umberto Fontana) che ha vissuto e lavorato, per tanti anni, nel grande Istituto S. Zeno dei Salesiani di Verona, Istituto che ha oltre 1200 alunni, tutti dalla scuola post obbligo fino all’istituto tecnico (e ora anche prime classi universitarie).  
[2] Cf: VATICANO II, Gravissimum educationis,1.
[3] In quasi tutte le psicoterapie fatte con adolescenti o giovani adulti che hanno problemi con l’università o con la famiglia emergono queste dinamiche che cerco di descrivere in questo studio.
[4] Cf: DIAMANTI I. (a cura), La generazione invisibile, inchiesta sui giovani del nostro tempo, Il Sole 24 Ore, Milano, 1999, 20.
[5] Ivi, 22.
[6] LIVI BACCI M., Quanto “contano” i giovani?, in: DIAMANTI I. o.c., 33-34.
[7] L’ultima ricerca autorevole che conosco è quella multidisciplinare realizzata dalle Facoltà di due prestigiose Università (Torino e Bologna) che va sotto il nome: GARELLI F., che va sotto il nome: GARELLI F. versità iplinare realizzata da tre università, di Torino, di Bologna e di puntualiuturo.futuro PALMONARI A., SCIOLLA L., La socializzazione flessibile, Identità e trasmissione di valori tra i giovani, Il Mulino, 2006. Da questa ricerca prenderò vari concetti che utilizzo in queste riflessioni, ai quali attacco la mia esperienza clinica.
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